In queste giornate gelide, in attesa di poterci rituffare tra gorgonie e parazoanthus, dedichiamo 10 minuti a questo video della serie “Idee che vale la pena diffondere“.
Chi ancora non conosce TED? Ecco una breve presentazione:
TED è un’organizzazione senza scopo di lucro dedita alla diffusione di idee, solitamente sotto forma di discorsi brevi e potenti (18 minuti o meno). TED è iniziato nel 1984 come una conferenza in cui convergevano tecnologia, intrattenimento e design e oggi copre quasi tutti gli argomenti, dalla scienza al business alle questioni globali, in più di 100 lingue. Nel frattempo, gli eventi TED gestiti in modo indipendente aiutano a condividere idee nelle comunità di tutto il mondo.
Sottolineo il fatto che questa e anche quasi tutte le conferenze sono sottotitolate in Italiano, per cui non avete scuse!
Quella che proponiamo oggi è tenuta dall’ecologo marino Enric Sala che condivide il suo audace piano per salvaguardare l’alto mare – alcuni degli ultimi luoghi selvaggi sulla terra, che non rientrano nella giurisdizione di ogni singolo paese – creando una gigantesca riserva marina che copre i due terzi dell’oceano mondiale . Proteggendo l’alto mare, Sala crede che ripristineremo i benefici ecologici, economici e sociali dell’oceano. “Quando possiamo allineare le esigenze economiche alla conservazione, possono accadere miracoli”.
Buona Visione!
Trascrizione in Italiano:
Se vi tuffaste in un punto a caso dell’oceano, probabilmente vedreste qualcosa di simile. Assenza di animali di grandi dimensioni. Perché li abbiamo pescati più velocemente di quanto potessero riprodursi. Oggi voglio proporre una strategia per salvare la vita degli oceani, una soluzione che ha molto a che fare con l’economia. Nel 1999, una piccola località chiamata Cabo Pulmo, in Messico era un deserto sottomarino. I pescatori erano così disperati per la mancanza di pesce da pescare che fecero qualcosa che nessuno si aspettava. Invece di stare più tempo in mare, per catturare i pochi pesci rimasti, smisero del tutto di pescare. Crearono un parco nazionale in mare. Una zona marina protetta. Quando ritornammo, 10 anni dopo, ecco ciò che vedemmo. Lo sterile mondo sottomarino di un tempo era diventato un caleidoscopio di vita e di colore.
Dopo soli 10 anni era tornato a essere incontaminato. Erano tornati persino i grandi predatori, come le cernie, gli squali, i carangidi. Quei pescatori lungimiranti ora guadagnano molto di più, grazie al turismo. Quando riusciamo ad armonizzare le esigenze economiche e la tutela, possono accadere miracoli. Abbiamo assistito a simili recuperi in tutto il mondo. Ho trascorso 20 anni a studiare l’impatto umano sull’oceano. Ma assistere in prima persona al recupero di luoghi come Cabo Pulmo mi diede speranza. Così decisi di lasciare il mio lavoro di professore universitario per dedicare la vita a salvare altri luoghi dell’oceano come questo. Negli ultimi 10 anni, il nostro team al National Geographic Pristine Seas ha esplorato, monitorato e documentato alcuni dei luoghi più selvaggi che ancora rimangono nell’oceano e ha collaborato con i governi per proteggerli. Sono tutti protetti e in totale coprono una superficie pari a metà del Canada. (Applausi) Questi luoghi sono l’equivalente in mare di Yellowstone e del Serengeti. Sono i luoghi in cui ci si tuffa in acqua e ci si ritrova immediatamente circondati da squali. (Risate) Il che è un bene, perché gli squali sono un buon indice della salute dell’ecosistema. Questi luoghi sono macchine del tempo che ci riportano all’oceano di 1.000 anni fa e i mostrano quale potrebbe essere il futuro degli oceani. Poiché l’oceano ha uno straordinario potere rigenerante, abbiamo assistito a un grande recupero in pochi anni. Dobbiamo solo proteggere molti altri luoghi a rischio in modo che possano diventare selvaggi e si riempiano di nuova vita. Oggi, solo il 2% degli oceani è completamente chiuso alla pesca e ad altre attività. Non è sufficiente. Gli studi indicano che dobbiamo proteggere almeno il 30% degli oceani, per salvare non solo la vita marina, ma anche noi stessi. Perché l’oceano produce più della metà dell’ossigeno che respiriamo, il cibo, e assorbe gran parte dell’inquinamento da carbonio che rilasciamo nell’atmosfera. Abbiamo bisogno di un oceano sano per sopravvivere. C’è un modo per accelerare la protezione degli oceani? Io penso di sì. Dobbiamo guardare alle acque internazionali. Cosa si intende con questo termine? I paesi costieri hanno autorità su 200 miglia nautiche da terra. Tutto ciò che si trova al di là di questa zona sono acque internazionali. In blu scuro su questa mappa. Nessun paese presiede le acque internazionali, nessun paese ne è responsabile, ma lo sono tutti e, quindi, è un po’ come il Far West. Esistono due tipi principali di pesca in quelle acque. Sul fondo e vicino alla superficie. La pesca sul fondo, a strascico, è la più distruttiva al mondo. I super-pescherecci a strascico, i più grandi dell’oceano, dispongono di reti di dimensioni tali da poter contenere una dozzina di jet 747. Le loro enormi reti distruggono tutto lungo il loro percorso, compresi i coralli in profondità, che crescono sui fondali marini e che possono avere migliaia di anni. La pesca vicino alla superficie riguarda soprattutto le specie che migrano tra le acque internazionali e le acque territoriali, come i tonni e gli squali. Molte di queste specie sono a rischio a causa della pesca eccessiva e della cattiva gestione. Ma chi pesca in acque internazionali? Prima d’ora era difficile stabilirlo con esattezza, perché gli stati erano molto riservati sulla pesca a grandi distanze. Ora, grazie alla tecnologia satellitare, possiamo localizzare singole imbarcazioni. Ciò può cambiare le cose. È la prima volta che presentiamo i dati che vedrete. Vi mostrerò le tracce di due barche nel corso di un anno, ottenute con un sistema di identificazione automatica satellitare. Ecco un peschereccio a palangari che opera nella costa sud dell’Africa. Dopo qualche mese di pesca in questa zona, la barca va in Giappone a rifornirsi e poco dopo, eccola qui, che pesca intorno al Madagascar. Questo è un peschereccio a strascico russo che probabilmente pesca merluzzo in acque russe e poi in acque internazionali nell’Atlantico settentrionale. Grazie a Global Fishing Watch, siamo riusciti a seguire più di 3.600 imbarcazioni provenienti da più di 20 paesi, che pescano in alto mare. Grazie a posizionamento satellitare e tecnologia di apprendimento automatico è possibile stabilire se le barche stanno solo navigando o pescando. Le barche sono i punti bianchi sulla mappa. Con un gruppo internazionale di colleghi, abbiamo deciso di investigare non solo su chi pesca in acque internazionali ma anche su chi ne trae profitto. Il mio collega, Juan Mayorga, dell’Università della California, a Santa Barbara, ha creato mappe dettagliate dello sforzo di pesca, un parametro che indica tempo e carburante usati per pescare in ogni pixel dell’oceano. Abbiamo una mappa per ogni paese. La Cina, Taiwan, il Giappone, la Corea e la Spagna, da soli sono responsabili di quasi l’80% della pesca in acque internazionali. Quando combiniamo i dati di tutti i paesi, ecco ciò che otteniamo. Conosciamo l’identità di ogni imbarcazione presente nel database, ne conosciamo le dimensioni, la stazza, la potenza dei motori, il numero di membri dell’equipaggio a bordo. Con questi dati possiamo calcolare i costi del carburante, del lavoro, ecc. Per la prima volta, quindi, abbiamo tracciato una mappa dei costi ella pesca in acque internazionali. Più scuro è il rosso, più alti sono i costi. Grazie ai colleghi dell’Università della British Columbia, sappiamo quanto ogni paese sta effettivamente pescando. Conosciamo il prezzo del pesce al momento dello sbarco. Insieme ai dati sullo sforzo di pesca, siamo riusciti a tracciare una mappa dei profitti della pesca in alto mare. Più scuro è il blu, più alto è il profitto. Abbiamo i costi e i profitti. Per la prima volta, quindi, è stato possibile mappare la redditività della pesca d’alto mare. Adesso vi mostrerò una mappa. I rossi significano che è antieconomico pescare in quella parte dell’oceano. I blu significano che è redditizio. Eccola qui. Sembra per lo più redditizio. Ma ci sono altri due fattori di cui dobbiamo tenere conto. Anzitutto, indagini recenti denunciano il ricorso al lavoro forzato, o al lavoro in schiavitù, nella pesca d’alto mare. Le imprese lo utilizzano per tagliare i costi e generare profitti. In secondo luogo, ogni anno i governi sovvenzionano la pesca d’alto mare con più di quattro miliardi di dollari. Torniamo alla mappa dei profitti. Se ipotizziamo salari equi, il che significa non ricorrere al lavoro in schiavitù, ed eliminiamo i sussidi dal nostro calcolo, la mappa si trasforma in questo. La pesca rende bene solo nella metà delle zone in acque internazionali. Nel complesso, le sovvenzioni sono quattro volte superiori ai profitti. Abbiamo quindi cinque paesi che praticano la maggior parte della pesca in acque internazionali e l’economia dipende da ingenti sovvenzioni pubbliche e, per alcuni paesi, da violazioni dei diritti umani. Ciò che rivela questa analisi economica è che l’intera faccenda della pesca in acque internazionali è fuorviante. Quale governo assennato sovvenzionerebbe un’industria ancorata allo sfruttamento e fondamentalmente distruttiva? E non è neanche molto redditizia. Allora, perché non chiudiamo alla pesca tutte le acque internazionali? Creiamo un’enorme riserva internazionale, pari a due terzi dell’oceano. Uno studio modellistico di… (Applausi) Uno studio modellistico effettuato dai colleghi di UC Santa Barbara, indica che tale riserva contribuirebbe al recupero in acque internazionali di specie migratorie come il tonno. Una parte di quest’abbondanza in aumento si riverserebbe nelle acque territoriali, contribuendo così a ripopolarle. Ciò aumenterebbe anche il pescato in queste acque, così come i profitti, perché il costo della pesca si abbasserebbe. I benefici ecologici sarebbero enormi, perché le specie di grandi predatori, come tonni e squali, sono fondamentali per la salute dell’intero ecosistema. Pertanto, la protezione delle acque internazionali comporterebbe vantaggi ecologici, economici e sociali. Ma la verità è che la maggior parte delle aziende di pesca non si preoccupa dell’ambiente. Eppure, guadagnerebbero di più non pescando in acque internazionali. Ciò non inciderebbe sulla capacità di nutrire la popolazione in crescita, perché le acque internazionali forniscono solo il 5% del pescato marino globale, perché non sono produttive come le acque costiere. La maggior parte di quel pescato viene venduto come alimento di lusso, come il sashimi di tonno o la zuppa di pinne di squalo, e non contribuisce alla sicurezza alimentare globale. Allora, come possiamo muoverci? Come possiamo proteggere le acque internazionali? Mentre parliamo, i negoziatori delle Nazioni Unite stanno avviando discussioni su un nuovo accordo proprio a tale scopo, che, però, non può avvenire a porte chiuse. Questa è la nostra più grande opportunità. Noi tutti dovremmo assicurarci che i nostri paesi sostengano la protezione delle acque internazionali ed eliminino le sovvenzioni alla pesca industriale. Nel 2016, 24 paesi e l’Unione Europea si sono impegnati a proteggere il Mare di Ross, i luoghi più selvaggi dell’Antartide, ricchi di fauna selvatica come orche, foche leopardo, pinguini. Erano coinvolti paesi dediti alla pesca, come Cina, Giappone, Spagna, Russia. Hanno tuttavia deciso che la protezione di un ambiente così particolare avrebbe comportato vantaggi maggiori rispetto al suo sfruttamento per un beneficio relativamente limitato. Questo è esattamente il tipo di cooperazione e la disponibilità a mettere da parte le differenze di cui avremmo bisogno. Possiamo farlo ancora. Se tra 20 anni i nostri figli dovessero tuffarsi in un punto qualsiasi dell’oceano, cosa vedrebbero? Un paesaggio spoglio, come gran parte dei nostri mari di oggi o abbondanza di vita, la nostra eredità per il futuro? Vi ringrazio molto. (Applausi) Grazie. (Applausi)